Questione di ”plastica”

 

 

di Cynthia Penna

 

 

Città di plastica, paesaggi di plastica e tra non molto un essere pseudo-umano fatto di plastica: questo il tema della mostra di Davidson. Una denuncia, ma anche una constatazione di irrimediabilità del fatto: la nostra vita è fatta di plastica. Quello che vediamo intorno a noi è il prodotto della nostra evoluzione? E la nostra evoluzione ci porterà irrimediabilmente verso un mondo dove l’origine sarà annientata e totalmente sostituita dalla plastica e dai suoi derivati? Questo il dilemma che Davidson si pone e ci pone.

Con chi e con che cosa il nostro futuro dovrà fare i conti? Con cosa si cimenteranno le generazioni future?
Avremo ancora sapori, odori, forme e colori così come oggi li conosciamo, o piuttosto tutto ciò sarà sostituito da nuove generazioni di sapori, odori, forme e colori? Il mondo si trasforma e noi siamo il prodotto di questa trasformazione. Ci trasformiamo in quel che mangiamo, generiamo quel che assorbiamo.
Joe Davidson riproduce mondi che solo all’apparenza sembrano inesistenti: intere città e paesaggi resi esclusivamente con l’uso di materiali plastici: città e paesaggi fatti di scotch tape o di bottiglie di plastica vuote contenenti in precedenza prodotti di uso quotidiano e di largo consumo. Tecnicamente l’uso della plastica è stato scelto per la sua duttilità e la sua indistruttibilità. Da un lato la possibilità di forgiarla a piacimento, dall’altro un tentativo inconscio di rendere immortale l’opera. La plastica si può degradare ma non si distrugge: un modo per superare il concetto di morte? Forme vuote fatte di materiale plastico: è questo il destino dell’essere umano? Indistruttibile per l’eternità, ma vuoto nei contenuti? Apparentemente il mondo sembra evolversi in tal senso: il mito dell’eterna giovinezza, corpi magnifici, scolpiti nei dettagli attraverso l’inserimento di protesi di silicone; l’esteriorità perfetta senza interiorità; l’apparire e non l’essere; la chirurgia estetica diventata necessità di sopravvivenza(!) perché inserisce nel corpo quella giusta quantità di indistruttibilità “plastica” per poter sempre più nascondere la vacuità dietro un’apparenza di perfezione meramente estetica. La mancanza di sentire e di essere nascosta dietro l’apparenza di bellezza: la bellezza di superficie che finisce con l’essere l’unica bellezza esistente, accessibile a tutti e senza sforzi; la bellezza finta e non la bellezza interiore. Questi i temi che sono alla base della ricerca di Davidson e di tutta la sua espressione artistica; non a caso l’artista vive e lavora a Los Angeles, luogo nel quale maggiormente si avverte questa evoluzione/involuzione(?) della società contemporanea.
 MOUNTAIN landscapes: Paesaggi “bucolici”, intere catene montuose tutte forgiate con sapiente manipolazione di molteplici stesure di Scotch tape: paesaggi apparentemente naturali di montagna, dove sembra di immergersi nella purezza di un’aria rarefatta e poi si scopre che anch’essi sono fatti di… scotch, null’altro che un derivato da idrocarburi.
CITY LANDSCAPE: Intere metropoli di plastica, sovraffollate e sommerse dalla plastica: città fatte di idrocarburi. La città massificata e senza identità; le moderne città sono tutte uguali: un reticolo di strade senza nome, tanto il nome neanche serve! Edifici tutti uguali : altezze diverse, forme diverse, ma identità, spirito, anima…assenti. Tutta la nostra vita contemporanea è un immenso ammasso di plastica.
“Il mio lavoro consiste in sculture e grandi installazioni fatte di oggetti di consumo quotidiano manipolati. Gli oggetti sono multipli di materiali poveri come lo scotch tape , pasta di carta e gesso. Tento di giungere ad un livello di produzione di massa negli oggetti, sebbene ognuno sia fatto a mano. La maggior parte del lavoro è monocromatico , guidato per lo più dalla qualità intrinseca e dalla simbologia del materiale usato. Ho lavorato come in una catena di montaggio, tirando fuori la stessa immagine in gran quantità e cercando eventuali significati.” (Joe Davidson)
NATURE MORTE: in esse vi è riproduzione ossessiva e compulsiva degli oggetti di largo consumo .
Gli oggetti riprodotti esattamente nella forma, ma tutti ricoperti della medesima sostanza e resi monocromi, perdono la loro identità, sono snaturati, non sono passibili di identificazione. Barattoli senza etichetta, come personaggi senza volto, uomini senza identità: l’oggetto identificato non dalla sua etichetta, dal suo nome, ma solo dalla sua forma esteriore. Esseri anonimi come anonimi siamo noi stessi in un mondo massificato e globalizzato. Uomini massificati e appiattiti nei bisogni; la massificazione dei bisogni rende inutili le individualità. La falsa eguaglianza tra gli uomini è quella derivante dalla identità dei suoi falsi bisogni. Uguali nei consumi, perché i consumi lo fanno UOMO: consumo, perciò sono: il nuovo paradigma Cartesiano. Consumo qualsiasi cosa anche senza necessità reale, senza nome e senza identità, basta che io consumi per….essere.
L’uomo senza personalità è quello più manipolabile a cui instillare nuovi bisogni di consumo, nuovi bisogni tutti uguali per uomini sempre più uguali e senza personalità. E’ questo il nostro destino e il nostro futuro?
“Le mie azioni ripetitive e apparentemente senza significato sono esplorate simbolicamente come riflessi del passaggio del tempo, isolamento emotivo e fantasie di fuga dalla realtà. Le azioni compulsive e ossessive richieste per creare i pezzi, comportano l’omissione di altrettante azioni forse più tradizionalmente cariche di significato e di utilità… .C’è un gap qualitativo tra l’originale e il pezzo forgiato , sebbene lieve. C’è una peculiarità, una assenza di vita nell’oggetto forgiato che ritengo di notevole significatoIo non miro a riprodurre esatte repliche dell’oggetto originale; io creo ombre dell’originale… .
Il lavoro che svolgo si oppone alla massa spesso schiacciante di faccende quotidiane e di scelte consumistiche che noi sperimentiamo nella nostra vita domestica…
Sebbene il prodotto sia una natura morta creata con lo scotch tape, o un mazzo di fiori di gesso, io miro all’assurdo come allo scopo del mio lavoro. Il lavoro è altamente rappresentativo nel contenuto, ma senza un chiaro significato assegnato, in modo da creare inquietudine. In tal modo io mi riallaccio alla tradizione surrealista di Eva Hesse, Piero Manzoni e alle figure contemporanee di Robert Gober e Matthew Barney…
La sovrapposizione di apparentemente semplici oggetti di largo consumo con questa inquietudine, aggiunge potenza al lavoro, nuovamente simbolico del contrasto tra la vita emotiva che ci contraddistingue come esseri umani e la compulsione e la pochezza che contraddistingue, invece, il nostro vivere quotidiano.” (Joe Davidson)
Lo snaturamento di un prodotto di uso quotidiano, si riversa sulla riflessione circa la nostra condizione esistenziale di quasi automi che ripetono meccanicamente il gesto. La gestualità meccanica viene esplorata, frammentata e interrotta e dà luogo ad una riflessione più lenta, più profonda. Ciò provoca un senso di straniamento e di inquietudine perché si abbandona la certezza dell’automatismo. La ripetizione ossessiva e meccanica delle azioni conferisce un senso di certezza; è l’abitudine che infonde sicurezza !!!! Interrotto l’automatismo del vivere, l’uomo è solo di fronte a se stesso ed è costretto a riflettere sul significato delle cose e sull’essenza di esse e del vivere: questo comporta straniamento, incertezza, senso di vuoto, mancanza di reti di supporto.
Nelle sue Still Life il giovane Davidson non ha avuto timore di confrontarsi con personalità artistiche di grande spessore come Calzolari e Pavlos , senza “scomodare” Morandi che appartiene ad un’epoca ancor più distante sotto ogni aspetto. In tali artisti l’attenzione è incentrata prima di tutto sulla Forma in sé, ma solo quale origine della composizione e, piuttosto, principio ispiratore della stessa.
In Pavlos l’attenzione per la forma è accomunata ad una attenzione ancor più accentuata per il colore. Pavlos manipola la carta in senso prettamente estetico ed estetizzante con uno sguardo attento alla percezione che di esso ha lo spettatore muovendosi innanzi all’opera. Quindi, da un lato, un interesse scientifico su fatti di percezione ottica e, dall’altro, la poetica che si sprigiona dal perfetto bilanciamento di forma e colore che conferiscono all’opera un ‘aura di accentuato lirismo.
In Calzolari la forma è solo il pretesto del concetto. Il suo lavoro contiene un approccio esclusivamente “concettuale” all’opera. Le sue “nature morte”, come quelle del 2005, sono luoghi di incontro e luoghi di trasformazione di concetti. L’opera contiene e trasforma, elaborandolo, il concetto ispiratore, ma poi, distaccandosi da esso, diviene “altro”, un luogo artistico nuovo, una nuova e diversa entità . La comunanza dei materiali poveri e dell’approccio all’opera in sé rende i due artisti tanto più vicini quanto le distanze materiali e anagrafiche tra i due indurrebbero a pensare. Davidson prende a prestito una forma (o migliaia di forme) per sperimentare il concetto di tempo e di azione. La sua ricerca è incentrata sui rapporti tra tempo e azione umana; quanto del tempo concesso all’essere umano viene sprecato in automatismo di azione senza concentrazione sull’io, e sull’essenza delle cose.
La poetica che Davidson ha in comune con i due maestri è tutta nella delicatezza dell’impianto e della composizione; la poetica di Davidson non è lirismo: la sua opera è figlia del suo tempo ed è anche costretta alla denuncia: se l’arte è lo specchio del reale, Davidson è ancor più figlio del suo tempo e della sua società e non può far altro che denunciare il profondo malessere della società in cui vive e nella quale la perdita di identità e la massificazione dell’essere umano senza personalità sono il rischio più grande che tutti stiamo correndo.