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di Cynthia Penna

 

 

Il colore e lo studio del colore in svariate sue manifestazioni sembra essere il leit motiv di questa esposizione. Colore come modalità pittorica in senso tecnico, ma anche colore come espressione di vitalità e forza.
Nakagomi ha elaborato opere su carta rivoluzionando un po’ il suo stile attraverso l’introduzione di elementi di “movimentazione” dell’assetto pittorico che costituiscono un panorama inedito della sua produzione. Innanzi tutto il formato di alcune opere è trapezoidale, quindi un formato assolutamente innovativo; inoltre la sua potenza espressiva, che rimane saldamente ancorata alla paesaggistica giapponese di tradizione, si è qui attualizzata con un nuovo impianto scenografico che indugia su un verticalismo della pennellata del tutto nuovo ai suoi schemi. La struttura formale delle sue opere su tela viene radicalmente sovvertita dall’introduzione di pennellate verticali e di linee di colore che si intersecano o si sovrappongono le une alle altre; l’opera ha acquisito una dinamicità di movimento data dal tipo di pennellata grassa, piena, corposa che non lascia alcuno spazio alla staticità dell’immagine. La declinazione del colore però rimane quella originaria della evanescenza che sconfina in un “annebbiamento” della percezione visiva. Il mondo pittorico di Nakagomi non è più soltanto quello di un paesaggio metafisico e onirico, ma è anche quello di una realtà fatta di categoricità, lotta e affermazione.
Mika Cho professore presso la Cal State University di Los Angeles ha svolto da sempre la sua attività artistica in parallelo a quella universitaria.
La sua tecnica pittorica è legata decisamente ai “color fields” di stampo Rothkiano tanto cari all’astrazione americana del dopoguerra; i suoi campi di colore apparentemente monocromi inducono l’immagine di atmosfere evanescenti, e sono composti da una intensa stratificazione del colore ad olio che l’artista usa sapientemente e, direi, molto elegantemente. L’eleganza formale del tratto della Cho-donna, si estrinseca nella Cho-artista attraverso una colorazione sfumata e mai aggressiva sebbene di grande solidità e potenza. Le opere di Cho non sono mai scialbe, non sono retoriche, non sono banali. In queste opere composte per stratificazione del colore si percepisce una narrazione che non si ferma alla mera superficie dell’opera ma penetra in profondità nell’animo di chi guarda. Colore sfumato e luce compongono da soli una narrazione di accadimenti umani fatta per immagini mentali e inconsce. Le opere di Cho invitano ad una meditazione pacata e serena e a lasciarsi trasportare da ricordi e sensazioni perdute.
Alfonso Sacco apre una pagina di narrazione focalizzata sulla memoria e lo fa esprimendosi anch’egli soltanto attraverso il colore; colore che adopera in tutte le sue declinazioni.
Sacco è il più “espressionista” dei tre artisti; il più “oggettuale” in quanto agisce attraverso una base segnica che è appunto quella dell’impronta, ovvero quel segno o quel tratto determinante una unicità che contraddistingue il genere umano al pari del DNA.
L’impronta nelle opere di Sacco non determina soltanto una identità, ma anche una identificazione che è quella della propria memoria che ognuno di noi si porta dietro.
L’impronta è di per se stessa memoria; memoria del proprio vissuto, memoria della propria provenienza, della propria intimità, memoria del proprio passato, dell’io e del quando.
Spazio e tempo individuali riuniti sotto il segno di un’unica impronta che è memoria di sé.
Ma la bellezza delle opere di Sacco è che l’impatto immediato ed emotivo che esse inducono è quello della vivacità, di un movimento costante, quasi una danza che queste impronte creano sovrapponendosi o accostandosi l’una all’altra. Un affollamento di umanità che palpita e che si mescola nella danza della vita. Ordine cosmico in apparente disordine.